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La zona di sviluppo prossimale: ovvero di come non si costruisce una classe di guerrieri, ma di viaggiatori

  • Immagine del redattore: Mirko Garofalo
    Mirko Garofalo
  • 10 apr
  • Tempo di lettura: 3 min


di Garofalo Cosimo Mirko - Pedagogista e Autore


Immaginate un maestro antico. Uno di quelli che camminava lento per i corridoi di Atene, con la barba bianca e lo sguardo gentile. Uno che, a ogni domanda, rispondeva con un’altra domanda. Socrate, direbbe qualcuno. Un rompiscatole, direbbe qualcun altro. Ma forse era solo uno che aveva capito che per imparare serve qualcuno che ti cammina accanto, né troppo avanti, né troppo indietro.


Ed è proprio lì, tra il “troppo” e il “poco”, che si infila il concetto di zona di sviluppo prossimale di Lev Vygotskij. Un nome che sembra uscito da un manuale tecnico, ma che in realtà è un invito alla delicatezza. Una carezza teorica rivolta a chi insegna e a chi impara.




Ma che cos’è sta benedetta zona?


È lo spazio – fisico, mentale, emotivo – tra ciò che un alunno sa già fare da solo e ciò che non sa ancora fare ma potrebbe fare con l’aiuto di qualcuno. Non è un vuoto da colmare con urgenza, ma una finestra che si apre, ogni giorno, in modi diversi, su mondi nuovi.


È come se ogni studente fosse un ponte ancora in costruzione: se carichi troppo, crolla; se non lo attraversi mai, arrugginisce. Serve equilibrio, pazienza, ma soprattutto serve stare lì, vicino. Non sopra, non davanti, non dietro: accanto.




Quando la trascuri… scatta la missione impossibile


E adesso immagina una classe in cui nessuno tiene conto di questa zona. Si parte con la lezione e si dice: “Oggi facciamo l’analisi del periodo con l’indicativo ipotetico del futuro anteriore”. Ecco, a quel punto per alcuni studenti è come se avessero appena ricevuto l’ordine di scalare l’Everest… in ciabatte.


Il risultato? Due tipi di reazione:

1. Missione impossibile accettata, con ansia crescente, sbagli in serie, frustrazione e, alla lunga, un’idea balorda che si fa largo nella mente: “Io non ci arrivo. Non sono capace. Non valgo.”

2. Missione rifiutata, con fuga strategica verso altri mondi: il cellulare, lo sguardo nel vuoto, il banco come isola deserta. Da lì non si parte, ma si sopravvive.


E noi, educatori, ci domandiamo: “Perché non si impegnano?”, “Perché non partecipano?”, “Perché non capiscono?”. Ma forse la domanda giusta è: li stiamo davvero raggiungendo nella loro zona? O li abbiamo lasciati troppo lontani dal nostro punto di partenza?



Qual è allora la ricaduta concreta?


1. Programmare per livelli non è una resa, è una strategia. Significa riconoscere che non tutti sono allo stesso punto del viaggio, e offrire a ciascuno uno zaino adatto.

2. Dare il giusto aiuto, né troppo né troppo poco. L’aiuto giusto è quello che crea autonomia, non dipendenza. È il trampolino, non la stampella.

3. Osservare è più importante che spiegare. Perché se non sai dove si trova davvero uno studente, non saprai mai da dove cominciare a guidarlo.



In conclusione, caro collega…


La zona di sviluppo prossimale è come il tempo giusto per vendemmiare: se arrivi troppo presto, l’uva è acerba. Se tardi troppo, è passata. Ma se arrivi quando devi, e con la pazienza che serve, ti porti a casa il vino buono.


E allora, invece di aspettarci che tutti diventino campioni, iniziamo a guardarli come viaggiatori. Alcuni camminano veloci, altri più lenti. Ma se imparano a camminare bene, a loro ritmo, e con noi al loro fianco, allora sì che abbiamo fatto scuola.

E magari, alla fine, impariamo qualcosa anche noi.

 
 
 

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